Cultura

Incendio Navi Romane di Nemi, il giallo risolto: presentato il libro che svela chi distrusse le navi nel Museo

Per 80 anni, come benzina sul fuoco, chiacchiere e pettegolezzi hanno appiccato un incendio incessante sulla complicata questione delle navi di Caligola. Andate in fumo durante la Seconda Guerra Mondiale nel museo ideato per custodirle, perdita tragica e di valore incalcolabile per la civiltà, le navi attendevano da tanto tempo un risarcimento se non altro in termini di verità da ristabilire. Non c’è famiglia del territorio che non coltivi memoria in merito, o che non abbia una propria versione dei fatti da raccontare: distrutte per la leggerezza degli sfollati che avevano trovato riparo nel museo, o per la rappresaglia dei tedeschi in ritirata. Per qualcuno, opera dei partigiani in sfregio al dittatore fascista, o di ladruncoli per cancellare le tracce dei loro saccheggi.

Finalmente la vox populi, tanto suggestiva quanto infondata, è stata sorpassata dalla scienza e l’enigma pare sciolto. A scrivere il decisivo capitolo di storia locale e non, ci hanno pensato due brillanti ricercatori, Flavio Altamura, archeologo, e Stefano Paolucci, storico. Il loro lavoro, imponente quanto le imbarcazioni distrutte, L’incendio delle navi di Nemi. Indagine su un cold case della Seconda guerra mondiale (Passamonti Editore, 27  €), è stato presentato ieri, sabato 23 settembre, nella sede naturale, il museo delle navi romane di Nemi alla presenza di un folto e partecipe pubblico. L’occasione è stata data dalla celebrazione delle Giornate Europee del Patrimonio 2023, quest’anno incentrate sul tema ‘Patrimonio in Vita’. È stato presentato anche il numero monografico della Rivista di Engramma, ‘Guerra, archeologia e architettura, Le Navi di Nemi’, a cura di Maddalena Bassani e Christian Toson al quale hanno contribuito gli autori. 

Per secoli la vulgata è stata che lo specchio di Nemi custodisse un gran segreto. “Sotto quel lago un mistero ce sta, de Tiberio le navi so’ l’antica civiltà”, recitano i versi scritti nel 1926 da Franco Silvestri in cui le navi di Nemi sono attribuite a Tiberio, cantati per primo da Ettore Petrolini. Sopravvissute alle intemperie storiche per duemila anni restandosene sepolte in fondo al lago, finalmente riemerse tra il 1929 e il 1931, riaffiorate hanno avuto vita brevissima: sono andate in cenere durante la Seconda Guerra Mondiale. Per decenni, la versione ufficiale tra le molteplici dicerie è stata che la colpa sia stata dei tedeschi. La novità ora è che il meticoloso studio di Altamura e Paolucci ribalta il giudizio della commissione postbellica e attribuisce la responsabilità della distruzione delle navi romane esclusivamente ai bombardamenti americani.

Saluti istituzionali e lavori in corso

I saluti istituzionali sono stati quelli di Stefano Petrocchi, direttore regionale Musei Lazio. A introdurre e moderare il dibattito è stata Daniela De Angelis, direttrice del museo. Ha presentato il libro con ricca argomentazione Umberto Croppi, direttore di Federculture e presidente della Fondazione La Quadriennale di Roma.

Ormai il museo delle navi sta diventando uno dei punti più importanti della nostra regione come merita di essere. Verrà coinvolto in una campagna importante di recupero dell’opera del geniale architetto Morpurgo, autore dell’edificio. Questa istituzione museale ha un’unicità che non ha alcun museo al mondo”, le parole di Petrocchi ad apertura dei lavori. Petrocchi ha riepilogato l’incredibile storia delle navi imperiali che hanno avuto un destino beffardo: per secoli sono state una leggenda, dal Rinascimento si è tentato di riportarle in superficie. “Ci sono voluti cinque secoli per riuscire a farle riemergere con tutto il loro carico, ma poi tutto è stato tragicamente cancellato il 31 maggio 1941 quando un luogo che doveva essere tutelato, era conteso. Il libro di Altamura e Petrocchi riapre un dibattito sulla verità storica di quei momenti”. 

Apocalypse now, dal Ramo d’oro a Francis Ford Coppola  

Le navi di Nemi si collocano in un contesto a dir poco di fondazione. Sulle sponde del lago si ergeva il nemus, il bosco sacro che accoglieva il santuario di Diana Nemorensis. “Qui è accaduto qualcosa di importante, di unico, qui è nata la civiltà”, ha detto Umberto Croppi citando Apocalypse now, il capolavoro del regista Francis Ford Coppola incentrato sulla guerra in Vietnam, vincitore di due Oscar nel 1979. Il film è ispirato al romanzo Cuore di tenebra di Joseph Conrad, ma ancor prima al libro Ramo d’oro di James Frazer, padre dell’antropologia, il primo a rintracciare a Nemi un culto arcano di una società guerriera che prevedeva rituali sanguinari.

Il libro ispira il film e appare sulla scena verso la fine sul tavolo del colonnello americano Kurt, interpretato da Marlon Brando. “Se un importante regista americano ha colto quest’aspetto e ci ha costruito la trama di un film, vuol dire che è accaduto qualcosa di decisivo qui”. A partire da questi termini, il volume presentato segna un momento importante nella storia del museo e della ricerca: “Mi piace pensare a questo museo come a un organismo vivente che accoglie nuovi stimoli e progredisce. Flavio Altamura e Stefano Paolucci hanno fatto un lavoro importante di ricerca e studio. Si potrà non condividere ma la verità storica progredisce, non è inconfutabile ma è stato segnato un passo in avanti”, ha detto Croppi.

Una svolta anche per la storia del museo, unico contenitore rimasto senza il contenuto per cui era stato concepito dall’architetto Vittorio Morpurgo, lo stesso che ideò la teca dell’Ara Pacis a Roma. Ancora Croppi: “Questo libro è intitolato all’incendio delle navi di Nemi ma c’è molto di più. L’incendio è la scusa, l’occasione”. Il libro contiene e ridefinisce tante storie: quelle delle navi, inizialmente attribuite a Tiberio: “Anche su quest’aspetto sarebbe forse opportuna un’ulteriore indagine perché la damnatio memoriae che colpì Caligola ha fatto sì che siano state affondate e nascoste. Il libro mi ha insegnato che già nel 1446 Leon Battista Alberti su commissione del cardinal Prospero Colonna tentò di portarle in superficie costruendo un sistema di ganci, ma senza riuscirci”.

Segue una storia di scafandri, battiscafi, palombari fino agli anni ’30, tempi di archeologia patriottica, “quando il regime decide di fare un’operazione sistematica di indagine e scavo”, accoglie la proposta di Guido Uccelli, un industriale milanese che utilizza il canale di scarico del lago per prosciugarlo e realizzare il recupero. L’architetto Morpurgo costruisce la struttura perché sia funzionale a quei reperti archeologici. Il 31 maggio 1944, tre giorni prima della liberazione di Roma, granate di cannoni colpiscono il museo aprendo quattro grandi voragini sul tetto del museo occupato fino a 4 giorni prima da famiglie di sfollati di Genzano. Quella stessa sera, alle 22 e 30, scoppia un incendio e colpisce i reperti. Viene nominata una commissione che frettolosamente arriva alla conclusione che l’incendio sia stato volutamente appiccato dai tedeschi costretti a lasciare l’area. “Il perno sono le testimonianze dei 4 guardiani fatti allontanare giorni prima e inviati in grotte”. Riferiscono che nei giorni precedenti una batteria di artiglieria tedesca composta da quattro cannoni si sarebbe posizionata nei pressi dell’edificio. I soldati si sarebbero sistemati all’interno del museo, allontanando i custodi e le loro famiglie. “Raccontano di aver visto mezz’ora prima dell’incendio un lumicino nel museo. Poi dicono altre cose, si contraddicono. Della commissione fa parte un solo esperto di balistica: una scheggia rovente può benissimo aver appiccato l’incendio”. Croppi ha ricordato altri danneggiamenti inflitti al patrimonio culturale e archeologico italiano dagli alleati anglo-americani. I casi sono quelli della cappella del cimitero monumentale di Pisa, dell’abbazia di Cassino, di Pantelleria. 

L’appello della direttrice del museo

Nel corso della presentazione del libro la direttrice del museo, Daniela De Angelis, ha fatto un appello ai cittadini di Nemi, Genzano e comune limitrofi. “Spesso vediamo sui social e sulle pagine Facebook dedicate alla zona che vengono pubblicate foto d’epoca anche relative al museo. Ci piacerebbe che chi ha questi documenti venisse a trovarci per digitalizzare queste memorie. Passate parola, è una cosa importantissima raccogliere testimonianze e memorie locali”. 

Documenti inediti e metodi d’investigazione innovativi: ‘incenerita’ la versione di comodo

Il caso è chiuso. L’indagine da parte degli autori, profondi conoscitori del territorio, è durata dieci lunghi anni. A ‘innescarla’ è stata la richiesta da parte di una rivista specializzata internazionale di un articolo sulle navi di Nemi. Ma ogni punto da sviluppare in quello che doveva essere un breve saggio, apriva temi cruciali, questioni irrisolte tutte ancora da scandagliare. Doveva essere una breve trattazione, è venuto fuori un volume di 500 pagine corredato da oltre 120 foto a conclusione di un lavoro immane. “Siamo andati nel dettaglio maniacale. Abbiamo proceduto con due prospettive, una storica, l’altra scientifica”, ha spiegato Paolucci. Armati di metodo scientifico e talento investigativo, gli autori hanno compiuto una ricerca certosina senza lasciare nulla di intentato. Tutto è stato passato al setaccio: fonti ufficiali, cronache e testimonianze note, documenti inediti rintracciati in numerosi archivi italiani ed esteri.

Altamura e Paolucci sono andati a rintracciare le foto eseguite per la commissione d’inchiesta, le lettere informative e le dichiarazioni testimoniali dei custodi del museo, la corrispondenza istituzionale e le carte private del soprintendente dell’epoca, i rapporti degli ufficiali del Governo militare alleato, le denunce pervenute ai vari organi inquirenti di quel periodo. Alla ricerca di archivio e alla minuziosa ricostruzione degli avvenimenti, si è aggiunta l’attività investigativa d’ultima generazione sugli incendi: sono stati consultati moderni manuali di ‘fire investigation’, gli stessi utilizzati in ambito forense, e sono emersi dettagli fondamentali, finora ignoti. “Per la prima volta ho scritto un libro a quattro mani – il racconto di Paolucci – abbiamo escluso che siano stati i partigiani e i tedeschi. Le verità alternative che hanno circolato per 80 anni. Noi ci siamo cresciuti con queste verità. Non siamo partiti con una nostra tesi, cioè a dire noi sappiamo cosa è successo, no, la verità volevamo scoprirlo strada facendo. Siamo andati avanti per esclusione: possiamo non sapere come sia andata, ma possiamo sapere cosa non sia successo. Il criterio è quello che Umberto Eco chiamava ‘realismo negativo’, c’è venuto in soccorso anche Sherlock Holmes”.

Tre i criteri per arrivare a un ‘verdetto’: occasione, mezzo e movente. Mancherebbero del tutto se si volesse dare la responsabilità ai tedeschi “Come avrebbero incendiato? La relazione della commissione d’inchiesta non lo dice. Il movente manca se non quello labile dello sfregio o del sollazzo di soldati fanatici che avrebbero voluto provocare una perdita all’Italia. Ma l’ufficio militare tedesco aveva imposto la tutela del museo e ai beni archeologici e architettonici in tempo di guerra”. Sosteniamo che la colpa non sia stata degli sfollati, dei parenti degli sfollati, dei ladri di metalli, dei tedeschi”. Evidentemente, la colpevolezza tedesca è la versione di comodo data alla svelta e condizionata dai fatti del periodo storico-politico della Liberazione. 

Ad excludendum, allora, non resta che pensare agli alleati: il cannoneggiamento sarebbe stata l’occasione, il mezzo l’artiglieria, il movente, l’annientamento della batteria tedesca segnalata dai partigiani locali, la banda di Nemi-Genzano. L’obiettivo non sarebbe stato il museo, ma la batteria tedesca. Spesso la storia la scrivono i vincitori. Senza i paraocchi delle ideologie, gli autori guidati dal rigore scientifico, hanno fatto un’indagine molto accurata avvalendosi anche di discipline quali la fisica, la chimica, la balistica. Il lavoro ‘sana’ il trauma che ha subito il museo delle navi di Nemi e riattiva il flusso della conoscenza. Dalle ceneri a un nuovo inizio. 

Piera Lombardi

 

 

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